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IL… QUARTETTO

La nostra corista Rossella ci segnala un articolo comparso nel numero di luglio 2013 di “Lazio in Coro”, magazine mensile di informazione sulla coralità e sulle attività corali della regione Lazio (http://www.arcl.it/dmdocuments/LazioinCoro_lug_13.pdf) e lo pubblichiamo di seguito come spunto di riflessione, tra il serio e il faceto, per tutti i coristi o gli aspiranti tali:

CONTROCANTO

E ora facciamo un…”di Basso Ostinato

Per affrontare le calure di questo periodo climatico ci occupiamo di un argomento sicuramente non centrale nella vita del fantasmagorico mondo della coralità. Si limita all’attività delle prove ed ai gruppi con un numero non irrisorio di coristi, ma riserva qualche spunto di riflessione, sempre sopra le righe, come è stile di questa rubrichetta. Il fenomeno non è universale e non è comune a tutti i cori, ma lì dove i direttori musicali decidono di utilizzare lo strumento di cui parleremo, si verifica una serie di mal di pancia e mal di denti con strascichi umani abbastanza variegati. Chissà se i più arguti tra voi hanno capito di cosa intendiamo parlare. Sì? No? Magari serve un aiutino: c’entra il numero quattro. Ci siete? Altro aiutino? Nel fenomeno sono coinvolti alcuni coristi. Allora? Bravi! Qualcuno di voi ha capito che parleremo dei famigerati “quartetti”. Come?? Qualcuno di voi non sa di cosa stiamo parlando? Allora siete fortunati, e non avete mai cantato in un coro che fa uso di questo pur utilissimo strumento di tortura collettiva. Ma inquadriamo l’argomento con maggiore dettaglio. Quando si canta in cori folti c’è un pericolo sempre in agguato, di cui abbiamo avuto modo di parlare in tempi passati. In quel caso non si può pensare che il livello di preparazione di tutti i coristi sia il medesimo, ed inevitabilmente nella massa vi è qualcuno che canta senza la corretta intonazione, o senza conoscere bene i brani che vengono proposti. Questo può causare un effetto all’ascolto che si concretizza in una slabbratura del suono armonico d’insieme del gruppo, talvolta in imprecisioni di tipo ritmico, se non addirittura nella chiara percezione di qualche stonatura. Ben che vada il coro cala l’intonazione, trascinato verso il basso da chi non canta esattamente quello che deve. Scusate per le banalità che nel nostro ambiente sanno anche i muri, ma erano necessarie per introdurre correttamente l’argomento. In certi casi al direttore musicale del gruppo va bene così: o si accontenta di quanto è riuscito a cavare dal lavoro del suo coro, o si rassegna al fatto che non gli è possibile esorcizzare gli effetti negativi, magari perché è di buon cuore e non vuole escludere gli imperfetti dall’esibizione, o perché magari per motivi diplomatici o utilitaristici non ha intenzione di rinunciare all’apporto di alcune persone che dal punto di vista musicale non sono al massimo delle possibilità ma che offrono vantaggi di altro tipo all’attività: magari sono straor-dinari organizzatori, oppure sono danarosi e generosi ed apportano con entusiasmo utili contributi monetari alle sempre assetate casse del gruppo, oppure magari perché legami sentimentali o parentali si interpongono ad una gestione decisa ed efficace del coro. Ma in altri casi il direttore non si rassegna: esige che, guarda caso, tutti i coristi del suo gruppo cantino la stessa cosa, ed il più possibile nello stesso modo, generando risultati che remunerano sempre l’ascoltatore. Certo se parliamo di gruppi vocali, o compagini corali molto ristrette, il problema non si pone: in quel caso se qualcuno non è in grado di cantare con sicurezza la sua parte, è difficile che i brani arrivino alla fine senza incidenti. Se invece il gruppo è consistente la macchina nel suo complesso difficilmente frana verso il disastro, anche se ciò non è escluso a priori, ma si verifica ciò che abbiamo detto poc’anzi. Per esorcizzare il fenomeno vi sono sistemi tecnici che hanno una loro oggettiva efficacia, e che tendono a responsabilizzare musicalmente o vocalmente ciascun membro del gruppo, al fine di renderlo autonomo per l’esecuzione e a non dover quindi dipendere minimamente da coristi vicini, ai quali altrimenti finisce inevitabilmente per appoggiarsi. Uno di questi strumenti tecnici, da utilizzare durante le sessioni di prova, è il “quartetto”. Si parla di quartetto per semplificare, in quanto la maggior parte della musica vocale polifonica è scritta per quattro parti, altrimenti si deve parlare di”quintetto”, “sestetto” e via dicendo. Ma concediamoci la semplificazione. In cosa consiste? Semplice come bere un bicchier d’acqua: il direttore chiama un solo corista per sezione, screma quindi un quartetto che possa cantare tutte le parti del brano che si sta studiando, e ne fa cantare alcuni frammenti, se non addirittura tutto, al gruppetto selezionato. È ovvio che con questo sistema chi canta deve conoscere bene la parte, e la deve cantare senza imprecisioni di intonazione o ritmo, altrimenti il quartetto si ferma, o comunque produce un risultato discutibile: un ottimo sistema per responsabilizzare e stimolare il corista, per farlo cantare al massimo delle sue possibilità. Se poi durante la prova i quartetti ruotano, e quindi a turno tutti i coristi vengono coinvolti nel gioco, si garantisce uno studio preciso ed approfondito, il direttore riesce ad individuare i punti deboli e può lavorare alla correzione dei singoli difetti, e dopo questa sorta di autopsia musicale, quando si torna a cantare con l’intero gruppo la consapevolezza di ciascun corista è aumentata ed in genere il miglioramento qualitativo sul brano in studio risulta evidente. Ma a quale prezzo? Dipende dai soggetti coinvolti nei quartetti, dall’atmosfera delle prove e dalla capacità del direttore artistico di coinvolgere e sdrammatizzare, insomma tutt’altro che una bazzecola. Se il corista coinvolto è entusiasta per l’attività che svolge, è appassionato di musica ed ha un minimo di controllo del suo strumento vocale, in genere è contento di confrontarsi con l’esperienza del quartetto, e su richiesta spesso si offre volontario. Ma le altre tipologie di coristi, che magari amano l’attività in gruppo, vengono al coro per uscire di casa e incontrare gente, sono lì per rimorchiare una pulzella e dare una svolta al proprio destino affettivo, oppure per esercitare un potere, magari come componenti del consiglio direttivo, perché a casa o al lavoro non riescono a dare sfogo a questa loro umana esigenza, soffrono questo tipo di esperienza perché perdono la coperta di Linus della sezione abbondante, nelle file della quale possono mascherare i loro limiti o magari gestire le propria pigrizia. Per queste categorie di coristi il quartetto è un supplizio, talvolta una gogna, perché coinvolti in questa esperienza o sono costretti a mostrare i loro limiti inguaribili, che magari non sono noti a tutti i componenti del coro, oppure emerge una loro impreparazione, che li può mettere in oggettiva difficoltà nel confronto col resto del gruppo. Vi è anche una categoria di persone, molto emotive e magari un po’ insicure caratterialmente, che tra le file della sezione sono preparate, magari appassionate, e riescono sempre a dare il meglio, ma se si scoprono si sentono osservate e magari giudicate, perdono il controllo e nell’ambito del quartetto la loro buona performance si trasforma in un disastro, che fondamentalmente risulta per loro molto doloroso, non solo perché le costringe a dare meno di quello che possono, ma può generare in altri coristi ,che magari non conoscono bene i soggetti, un giudizio che non corrisponde alle loro reali potenzialità, e quindi le danneggia umanamente. Che disastro! Infatti nella maggioranza dei casi, quando il direttore annuncia in prova l’utilizzo dei quartetti ed invita i coristi a questa bella esperienza, si possono notare scene da terza media, e autorevoli professionisti, apprezzati insegnanti, amate madri di famiglia che sanno gestire casa e proge-nie con dolce fermezza, abbassano vilmente gli sguardi, qualcuno si abbassa proprio fisicamente scivolando sullo schienale della sedia per rendersi meno evidente, qualcuno improvvisamente viene colto dal sacro furore di analizzare con grande attenzione musicologica ogni segno dello spartito che ha tra le mani, e vi si cela dietro come se giocasse a nascondino, altri vengono presi dall’urgenza di soffiarsi il naso, e ravanano nella tasca affannosamente per cavarne il fazzoletto e nascondercisi dentro in una soffiata del tutto innaturale, chi comincia a parlottare affannosamente col vicino su un argomento trascurabile, che però pare essere della massima importanza in quel momento, pur di non incontrare lo sguardo roteante del povero direttore artistico, che ha una bella gatta da pelare! Quando questo definisce il quartetto, trascinando nell’impresa gente non certo entusiasta le facce appese si sprecano, talvolta i volti si arrossano per la vergogna, qualche sguardo si spalanca nel sottile panico alla ricerca del sostegno morale o anche pratico dell’amico ritenuto più bravo. Insomma i quartetti riescono ad essere contemporaneamente un momento di grande spessore tecnico musicale e una espressione delle miserie e debolezze umane. Oggettivamente il risultato sulla performance del gruppo è sempre positivo, perché chi cantava al traino matura una nuova responsabilità, o per consapevolezza di quello che canta o per paura. Le conseguenze umane non sono sempre idilliache. In certi casi qualche corista, che si sente perseguitato dall’esposizione del quartetto e preferirebbe continuare a vivacchiare nell’ombra della propria sezione, matura astio nei confronti del direttore, nel peggiore dei casi qualcuno abbandona l’attività del coro per troppo stress: sì sì, è successo anche questo. Davanti al problema della gestione di questo impatto traumatico i direttori più miti o timorosi delle conseguenze umane, temendo che queste possano dan-neggiare lo spirito del gruppo più di quanto il quartetto giovi alla sua qualità tecnica, adottano sistemi addolciti, ritenuti meno traumatici, come gli “ottetti”, cioè cantando a quattro voci si seleziona il gruppetto accostando due elementi per ciascuna sezione, in modo che le voci non siano del tutto scoperte e che i coristi a due a due si appoggino e incoraggino a vicenda. Questo è un sistema che garantisce comunque un discreto risultato tecnico, ma la cui efficacia è meno della metà di quella del quartetto, perché nella musica corale purtroppo stranamente l’aritmetica e l’algebra non funzionano come in altri campi, però comunque è meglio che un calcio nei denti! I direttori più timorosi usano alternative dei quartetti ancora più annacquate, nel tentativo di responsabilizzare le singole voci. Un sistema usato è quello di far provare i coristi mischiati tra loro, smontando completamente le geometrie delle sezioni e isolando ciascuno tra voci di altro timbro, in modo che non vi sia nessuno a cui appoggiarsi. Questo è un sistema molto affascinante di provare ed anche talvolta di esibirsi in coro, che aumenta oggettivamente il senso di consapevolezza dei singoli coristi, ma soltanto di quelli che vogliono e si sentono in grado di dare il loro apporto positivo. Gli insicuri o i pigri in questo caso si limitano ad abbassare la voce o a tramutarsi addirittura nei classici pesci, che mimano il canto con la bocca. Insomma il grande mischione ha un’efficacia tecnica utile ma inferiore a quella dei quartetti, mentre l’impatto psicologico sul gruppo è molto più dolce. Insomma il quartetto in prova è come l’iniezione in caso di malanno: fa un po’ male sul momento, ma fa tanto bene alla salute del coro. Bisognerebbe stringere un po’ i denti e avere tutti il coraggio di curarsi meglio con consapevolezza e amore per se stessi, per il proprio coro e per la musica. Purtroppo però ‘sti quartetti la mutua ancora non li passa…

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